Le ragioni di un nome: storia di Lunja e delle mie parole sommerse.
Io non so parlare di me, lascio che sia la mia scrittura a farlo. Una persona che non conosco e che non conosce la mia vita ingarbugliata, mi ha scritto, qualche giorno fa, parole meravigliose e vere sulla mia anima e la mia scrittura, che ne è il riflesso. Ecco, forse questo ritratto accurato di uno sconosciuto che sembra conoscermi intimamente, è quanto più si avvicini a un’immagine nitida della mia anima, perché forse è proprio vero che assomiglia alla mia scrittura, che è stata definita viscerale, accudente, limpida, morbida, avvolgente.

Non so se sia davvero così, se le mie parole possano essere, per qualcuno, una cura, un rifugio, una mano sugli occhi prima del sonno, come direbbe Niccolò Fabi. Ma io vorrei tanto che lo fossero: che queste mie piccole parole fossero come gocce di pioggia che fanno rifiorire l’anima di chi le riceve.
Comunque sia, io di me non so parlare. Al limite, posso parlare di ciò che mi appassiona, come la cultura amazigh, delle persone con cui sento un’affinità (rare, per la verità), o delle cose e degli esseri umani che mi fanno emozionare.
Posso parlare, ad esempio, di Lunja, un’eroina della narrativa orale amazigh, a cui mi lega una forte simpatia, dal greco sun pathein, cioè sentire o soffrire insieme. Forse un po’ assomiglio a Lunja, anche se non ho ancora la sua audacia e libertà di spirito, e neppure quella scaltra furbizia che le consente di fuggire lontano da tutto ciò che la fa stare male, per seguire le vie impervie e scoscese dei suoi desideri.

Lunja è figlia di un’orchessa, cioè un essere liminale al confine tra femminile e mostruoso, una creatura antropofaga dotata di una capigliatura raccapricciante e di due enormi seni che porta rovesciati sulle spalle. In alcuni racconti l’eroe riesce a salvarsi perché si attacca a uno dei suoi seni: l’allattamento, infatti, è la sola cosa che possa dissuaderlo. Bisogna ricordare che l’orchessa, in cabilo Tseriel, in altre varianti taghul, predilige soprattutto prede maschili, che divora per intero. Non è un caso, forse, che in alcune varianti della lingua amazigh divorare e fare l’amore si dicano con lo stesso verbo.
Ma torniamo alla nostra Lunja (Nunja nel Rif, nel Nord del Marocco). In alcune versioni l’orchessa è la madre naturale, in altre, invece, Lunja è cacciata di casa da una perfida matrigna e giunge a casa dell’orchessa insieme al fratellino. Entrambi vengono messi ad ingrassare dentro enormi giare ma alla fine, come sempre, l’orchessa divora solo il ragazzino. Lunja, dunque, viene risparmiata e diventa figlia dell’orchessa, che è considerata una sorta di anti-donna, l’emblema stesso della sterilità. Un giorno, un giovane libero e affascinante, giunge a casa di Lunja mentre sua madre è assente per la sua caccia quotidiana.
Beh, a questo punto, come potrai immaginare, tra Lunja, bella come la luna e l’affascinante sconosciuto, scoppia l’amore: un vrai coup de foudre! Lunja, che non è solo bellissima, ma anche dotata di acume e intelligenza (che in latino significa capacità di guardare dentro le persone e le situazioni), è consapevole di quanto precarie e vulnerabili siano le conquiste più preziose. Così capisce che deve proteggere il suo amore dalla furia divoratrice della madre-orchessa (che poi sarebbe la suocera di lui… non suona familiare una suocera orchessa?)
Così suggerisce al suo amato di nascondersi in una botola nel pavimento, che poi copre con un enorme mortaio. Quando l’orchessa rientra, fiuta l’odore di un umano e pronuncia una frase che suona un po’ come un’esclamazione di un celebre cartone animato di alcuni anni fa. Lunja, che sa scegliere con cura le parole, le dice di aver ucciso e poi mangiato un uccellino: ecco perché sente l’odore di carne.
Poi, con la pazienza che solo le persone dotate della sua tenera determinazione conoscono, attende la sera. A quel punto la madre decide di decorare con l’henné tutte le stoviglie e gli utensili, quindi li chiama, uno ad uno, a sé. Il mortaio, però, non si muove. Lunja, con la sua consueta delicatezza, convince la madre a rimandare al giorno seguente.
Giunge così la notte, il momento più propizio per iniziare a credere nei propri desideri, che non sono certo facilmente trascurabili per una sognatrice infaticabile come Lunja. Quando, finalmente, sente mormorii, versi, lamenti, mugolii, provenienti da tutti gli animali imprigionati nel ventre della madre, capisce che l’orchessa è finalmente sprofondata in un sonno pesantissimo, che assomiglia al sonno della ragione. Quel segnale significa una sola cosa: può finalmente liberarsi e fuggire via con il suo amato.
Quando si ritroverà davanti ad un fiume impetuoso, grazie all’arma della gentilezza e della parola, in tamazight Awal (che significa al contempo voce e discorso), riuscirà a superare l’ostacolo, rivolgendogli parole dolci:
Fiume di burro e di miele, lasciami passare.
Naturalmente, quando invece giungerà sua madre, l’orchessa, il fiume diventerà ancora più impetuoso e minaccioso, perché lei lo apostrofa con parole dure:
Fiume di fango e di merda, fammi passare!
[…] La storia è ancora lunga e comprende sequenze narrative che variano a seconda della variante regionale, del pubblico, del narratore o, più spesso, della narratrice e del contesto sociale. Naturalmente il finale è lieto, come in ogni fiaba che si rispetti, diversamente da quanto accade nella realtà.
Per saperne qualcosa in più si possono consultare alcune raccolte, come
Contes berbères de Kabylie del grande Mouloud Mammeri

Contes berbères du Maroc, di Émile Laoust, che presenta una peculiarità perché questo racconto, come altri, è stato raccolto dalla viva voce di una narratrice, Fatima Eddemnatia, fatto piuttosto raro nelle ricerche condotte nella prima metà del ‘900.

Ecco, dunque, spiegato perché il blog si chiama Lunja: perché mi sento un po’ simile a lei. Certo, finora non ho mai nascosto un ragazzo in una botola, ma ho dovuto nascondere tante altre cose che non sarebbe stato necessario occultare, come il volontariato con i senzatetto o la mia domanda per il servizio civile in Kenya, dopo il liceo.
Ho sempre dovuto tener sopiti i miei desideri, le mie passioni come la scrittura, le mie parole… è venuto il momento di farle uscire dalla botola!
